Io sono sardo, e, finché i miei genitori erano vivi, normalmente tornavo in Sardegna per visitarli.
Un giorno d’inizio estate, verso le 13, mentre leggevo in veranda, sentii suonare alla porta. Mi affacciai, ma, più veloce di me, mia madre era già alla finestra della cucina in dialogo con un immigrato, probabilmente senegalese, giù in strada.
- Mamma, compra… compra…
- No, figlio mio, ho già comprato tutto. Forse vuoi qualcosa da bere? Un’aranciata? Hai fame? Vuoi un panino col formaggio? Un po’ di frutta?
- Sì. Grazie, mamma.
E così tutti i giorni, circa alla stessa ora. Ma con una persona sempre diversa, quasi che si fossero dati dei turni. Io osservavo senza commentare. Dopo due o tre volte, incuriosito, cominciai a fare domande per capire cosa spingesse mia madre, che aveva il carattere non troppo sdolcinato delle donne dell’interno, a comportarsi così. Bisognerebbe immaginare il dialogo nella nostra colorita lingua sardo-logudorese.
- Ma tutti i giorni qualcuno… perché vengono? E sempre all’ora di pranzo…
- Perché gli offro qualcosa.
- Come mai? E tutti i giorni… si approfittano.
- Mi chiamano mamma.
- Lo fanno per impietosirti. E tu ci caschi. Sei troppo buona.
- Tu sei lontano, e se uno ti offrisse qualcosa, io sarei contenta. Anche loro sono figli. Anche loro hanno una madre. Non lo faccio solo per loro. Penso a te. E penso alle loro madri. Saranno contente.
Restai ammutolito: era vero. Senza complicazioni ideologiche. Senza teorie.
Anche loro sono figli. Anche loro hanno una madre.
Scrivendo questo testo pensavo a loro, ma lo dedico a mia madre che non c’è più.
Se questo mare…
Alberto Masala
che potrà sopravvivere ai suoi morti
annegati nella nostra negazione
e questo cielo
che chiede di percorrere ogni mare
per contenerne tutti gli orizzonti
e questo mondo
su cui noi camminiamo
ed invecchiamo, e nonostante tutto
tutti noi siamo il niente
di questi sporchi anni
niente
di questo tempo che ci sta preparando
ancora nuovi anni, figlio,
che nasceranno nel segno della nebbia
di questa sporca polvere del niente
che ci entra nell’animo
respiro impercettibile e insistente
sputata da quell’odio
che distende
questo strato perenne di miseria
che si compie e ricopre
le maestose rovine
del futuro che sporge sull’abisso
che avanza rivelando la sua impronta
nella melma e procede
nella sostanza
della natura umana
e qui non resta altro
e non capisco come posso amare
il chiarore insostenibile di un lampo
che incendia questa rabbia
questo allarme del cuore
che formicola di magre moltitudini
in tutto questo azzurro
che già risuona
un rumore di anime e di ossa
che sbattono contro la paura
senza felicità
senza felicità per questi figli
che sono figli uguali ai nostri figli
che attraversano il mare
per raggiungere un mondo
che non li riconosce, e ne ha paura
e della sua pietà li ha fatti esclusi
e così stanno
ghermiti dal bisogno
in attesa, in arsura,
per cercare una vita
tenendo il proprio nome nelle mani
come parola disseccata in urlo
nella loro illusione
nel destino che corre
dalla fine alla fine
guarda, che ora li vedi
almeno in questi suoni
in questi versi, in
tutta quest’acqua
di tutto questo mare
che
non ci perdonerà.