Lo spettatore in cammino
Pubblicato: 2021-12-27
Lo spettatore in cammino
Il viaggio in Giappone offre a Roland Barthes (1984) la possibilità di una differenza, di un mutamento, di una rivoluzione nella proprietà dei sistemi simbolici.
Voglio incominciare da qui. Perché i viaggi che ho compiuto sono stati anche per me soprattutto questo: l’irruzione della possibilità di una differenza. Differenza che negli anni ha generato, nel mio modo complessivo di pensare il teatro, di organizzarne lo spazio, di concepire l’esperienza dello spettatore, una vera e propria rivoluzione. Saltando già agli esiti più palesi, se nelle ultime decine di esperimenti teatrali che ho diretto si è passati da uno “spettatore stanziale”, seduto in platea di fronte ad un palcoscenico, ad uno “spettatore in cammino” ciò è dovuto alle tante scosse di terremoto che, viaggio dopo viaggio, hanno messo in crisi le mie categorie fondanti, il paradigma di teatro che prima davo per scontato.
Questo scritto, perciò, cercherà di fare una carrellata delle principali irruzioni che nel corso dei miei viaggi hanno destabilizzato il precedente, consolidato, sistema “poltronacentrico” e hanno generato le esperienze che - una volta rielaborate, metaforizzate e stilizzate - hanno innescato i primi esperimenti scenici di rottura. È come se, con uno sguardo retrospettivo alla Benjamin, andassi a cercare di rintracciare la prima volta, quella esperienza originaria di incontro con l’Altro, da cui poi è scaturita la faglia di rottura.
Palestina 1. L’orizzonte di attesa
Rammallah 2004. Domenica pomeriggio. Maestre con nidiate di bambini arrivano in teatro a ondate di ritardo. Hanno dovuto oltrepassare molti check-point volanti. Ma nessuna ha dubbi: ne vale la pena. Perché si tratta del primo musical palestinese interpretato interamente da bambini. L’orchestra è invece composta da musicisti tedeschi. Per vederlo si sono mossi da tutto il West Bank. Ma proprio per ostacolare questo momento di forte orgoglio identitario, l’esercito israeliano ha moltiplicato i check-point straordinari. Così gli spettatori bambini, nonostante la partenza all’alba, da Nablus, da Jenin, da Tulkarm arrivano in ritardo. Di mezz’ora. Di un’ora. Di due ore. E qui accade l’imprevisto. Vedo che finita quella che avrebbe dovuto essere l’ultima replica della stagione, bambini e musicisti, dopo gli applausi, restano sul palco a confabulare. Poi un annuncio. Per i ritardatari che continuano ad arrivare faranno un’altra replica. E un’altra. E un’altra ancora. Mi diranno il giorno dopo che sono andati avanti fino a sera.
Superare i check-point pur di vedere uno spettacolo, tanto lo si sente importante. Allo stesso tempo, credo, lo spettacolo si carica di importanza proprio perché giunge al termine di tante difficoltà, come arrivare in vetta dopo avere scalato l’intera montagna. La fatica, la difficoltà lo investono di valore. Forse è anche questo a fare sì che, quando alla fine dello spettacolo la principessa bambina fa abbattere le mura di cinta del palazzo salvando così il regno dalla infausta profezia, centinaia di persone accanto a me si alzano e intonano un canto. In seguito saprò che si tratta di un canto di resistenza risalente alla seconda Intifada. I bambini attori reagiscono a quel canto cambiando il copione e intonandolo anch’essi. Finisce così lo spettacolo, con l’intera platea in piedi che canta insieme ai piccoli attori.
Cosa era avvenuto? Era avvenuto che in una antica fiaba della tradizione gli spettatori avevano intravisto la loro quotidiana lotta contro il muro che in quei mesi Israele stava costruendo nei loro territori. Questa fu la mia impressione di allora, questa l’idea che mi feci parlando con gli amici palestinesi che mi avevano accompagnato: gli spettatori avevano colto qualcosa che non era presente neanche lontanamente nel testo originario (ma nemmeno - come dopo mi fu detto - nelle intenzioni della regia) e avevano risposto con un canto che trasfigurava quella scena in una questione politica che riguardava l’intera comunità, tanto che gli attori bambini avevano reagito senza scomporsi minimamente, unendosi al canto.
Ebbene, questa sete di senso politico, questa richiesta “a monte” fatta al teatro di essere momento di riflessione della comunità sulla comunità, in Palestina, l’avrei riscontrata molte e molte volte. Resteranno per me indelebili le accese discussioni col pubblico che scattavano dopo ogni replica di uno spettacolo che avevo tratto dalla Metamorfosi di Kafka. Gli spettatori si scaldavano mentre snocciolavano ipotesi sempre più ardite: ci stiamo trasformando in scarafaggi? La corazza dello scarafaggio è la maschera da terroristi che ci viene messa addosso? La famiglia finisce per rifiutare Gregor perché si sottrae al suo dovere di lotta? Oppure i familiari sono i paesi arabi che gradatamente hanno voltato le spalle a Gregor/Palestina? Quando a Gregor svuotano la stanza dalle sue cose è come quando a noi tagliano gli ulivi? Il violino che la sorella suona equivale al nostro stare qui adesso a vedere uno spettacolo, a distrarci? La stanza da cui Gregor non può uscire è forse Gaza? Il padre costretto ad indossare una lercia divisa da portinaio per poter lavorare sono gli arabi israeliani cittadini di serie B, umiliati pur di avere un lavoro?
In Italia, discussioni del genere a fine spettacolo non me le ero mai neanche sognate. Ci misi un po’ a rendermi conto che, in buona parte, prescindevano dalla messa in scena dello spettacolo. Ovviamente non sto dicendo che non dipendessero anche, in certi casi, dai segni schierati sulla scena. Sto dicendo che solo allora, con forza inaudita, feci esperienza di quanto contasse anche il resto. Il prima. Il tipo di “fame” degli spettatori. Quello che, forse, potremmo chiamare l’orizzonte di attesa. A quale sfera attengono le aspettative che lo spettatore ha nei confronti di uno spettacolo (quella estetica? Politica? Esistenziale? Dello svago?)? In quale dei suoi “cassetti” interni lo spettatore andrà a collocare quanto vede in quel tipo di esperienza culturale? Infine, detta in modo primitivo, cosa andiamo cercando quando andiamo a teatro?
Dopo le esperienze palestinesi mi sono come ammalato. Il malessere per il tipo di commenti da dopo-spettacolo italiano si è andato accentuando. Lo schiacciamento pressoché esclusivo sulle categorie bello-brutto; l’orizzonte (nel migliore dei casi) quasi unicamente estetico in cui veniva collocato l’ennesimo spettacolo; il cassetto della memoria dentro cui c’erano esclusivamente altri spettacoli e pressoché mai esperienze di vita da problematizzare; in altre parole, la difficoltà/ritrosia a tracciare collegamenti tra quanto avveniva sulla scena e la vita vissuta; la potenza dell’abitudine e dell’inerzia nel configurare il tipo di esperienza dell’essere spettatori, quasi a prescindere dalla specificità dello spettacolo sulla scena; la percezione di un sempre crescente distacco tra il mondo dentro al teatro e il mondo fuori dal teatro. Ebbene, tutto ciò, in modo più o meno vago, fece crescere in me un disagio sempre più grande. Si era innescato un processo di estraneità al mio stesso mondo.
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