Scritture migranti. N.14 (2020)
ISSN 2035-7141

Viaggio e Sconfinamenti
a cura di Emanuela Piga Bruni e Pierluigi Musarò

Periplo

Carlo Parisi

Appassionato di kayak e vela, non sono un professionista di nessuna delle due discipline, ma un semplice e sincero amatore. Viaggiatore appassionato in Asia (Cina, Russia e Sudest) e in Europa, negli ultimi anni ho scelto la bicicletta come mezzo di locomozione, per la sua affinità alla mia anima e alla mia visione di viaggio lento, accurato, rispettoso, che non lasci tracce esteriori ma solo intime e segrete. Di tutto questo, ciò che mi sta a cuore è la narrazione come forma raffinata di condivisione. La pratico con sempre maggiore coinvolgimento e impegno nel blog www.spacesalmon.com e nelle piattaforme social, che sono pur sempre l’agorà dei contemporanei.

Pubblicato: 2021-12-27

foto di Carlo Parisi

Periplo

Periplo è il cantiere di un lungo e combattuto racconto di viaggio.

Un viaggio nient’affatto esotico, ma attorno all’isola in cui sono nato. L’isola dove vivo, l’isola che è la mia prossimità.

Non siamo abituati ad associare il viaggio alla prossimità. Eppure è proprio lì che veniamo educati – o maleducati – al viaggio. È per cerchi concentrici via via più larghi che procede la nostra esplorazione, a partire dagli anfratti più familiari, per espandersi via via più lontano, mentre la nostra esperienza e virtuosismo di viaggiatori aumentano di respiro e complessità. Ma non facciamo e faremo mai nulla di essenzialmente diverso, all’altro capo del mondo, che non abbiamo già fatto nel nostro cortile, nella strada dove siamo cresciuti, nel parco e nel quartiere dove abbiamo nutrito la curiosità dei suoi primi pasti. E se smettiamo di farlo, dando per scontata la nostra prossimità, derubricandola a banale quotidiano che non vale uno sguardo sempre testardamente nuovo, ci sono serie probabilità che la nostra qualità di viaggiatori decada, che il nostro viaggio cominci pericolosamente a nutrirsi di esotismi e cliché.

Nel 2020, l’anno-cesura della nostra recente modernità, l’anno del covid-19, ho deciso di osare un’azione che avevo per anni cullato solo col pensiero: circumnavigare la Sardegna su un kayak a vela lungo poco più di 5 metri, un kayak smontabile di fabbricazione tedesca e modificato da me: un glorioso Klepper, l’antesignano dei moderni kayak smontabili, erede di quelli tradizionali Inuit e Aleutini.

La struttura della barca è semplice e geniale. Una serie di longheroni di legno che corrono per tutta la lunghezza della barca, costole ad arco o chiuse sempre di legno, di dimensioni digradanti dal pozzetto verso la prua e la poppa e fissate sui longheroni a distanze regolari, il tutto rivestito da una pelle fatta di robusto cotone gommato e reso idrorepellente.

La descrizione essenziale può stare tutta qua. Eppure la storia che questa barca ha alle spalle è millenaria. È parte di quella di tante comunità di homo sapiens sparse per il pianeta. Ma sono soprattutto i popoli delle terre all’estremo settentrione ad aver reso perfetti il progetto e la realizzazione di questa barca. Gli Unangan nelle Isole Aleutine, gli Yupik in Alaska e Siberia orientale, e soprattutto gli Inuit in Canada e Groenlandia erano i maestri assoluti nella costruzione di queste barche, vitali per la dura esistenza fra i ghiacci che quei popoli avevano scelto come loro casa.

La struttura era fatta con legni spiaggiati dalle mareggiate lungo le coste, in quelle terre povere di vegetazione. O anche con le ossa di alcune delle loro prede di caccia preferite: foche, delfini, leoni marini, perfino balene. Le giunture fra un legno o un osso e l’altro erano fissate con robusti tendini animali, attraverso nodi che erano a un tempo capolavori tecnici e coaguli di significati mistici. Erano quei nodi a tenere uniti il kayak e la vita dell’uomo che dalla sua tenuta in mare dipendeva. Dovevano essere stretti, ma capaci di mollare abbastanza da lasciare la struttura flessibile, per sopportare meglio le turbolenze di quelle acque in grado di diventare repentinamente feroci e prendersi la vita dei cacciatori. Lo scheletro veniva poi rivestito con la pelle degli animali che avevano già donato le loro ossa, soprattutto foche. Così fatti i kayak erano qualcosa di più di un’imbarcazione. Facevano tutt’uno con il corpo del cacciatore. Dentro il suo kayak un Inuit era in grado di spostarsi fra i ghiacci e insidiare le foche silenzioso come un orso bianco che nuota. Non stupisce che questi strumenti così essenziali per la sopravvivenza venissero trattati con tutte le cure possibili, considerati in possesso di un’essenza spirituale, elevati al rango di membri della famiglia.

Un periplo della Sardegna, ma forse non uno qualunque.

Un’impresa certo modesta, se paragonata a tante altre più estreme e rischiose di tanti avventurieri del mondo passato e presente, ma assolutamente epica in senso personale - se con epica intendiamo un’azione rivoluzionaria del nostro individuale, minuscolo orizzonte di esperienze, che rievochi nel nostro vissuto il viaggio come evento archetipico, pietra angolare della nostra vicenda umana.

Epico è una di quelle parole cruciali che sembrano particolarmente prese di mira dalla violenza della recente neolingua. Epico è ormai riservato a eventi e azioni che sono la quintessenza dell’ordinarietà. Resi nauseanti dalla loro ripetizione, in una assillante ecolalia verbale e immaginifica che è il trash food quotidiano del mondo reso social. Ciò che una volta era epico, oggi suona estraneo a questa parola, che ne serba anzi un’eco sfigurata che diventa dileggio, pantomima semantica, imitazione-umiliazione.

Eppure, il pericoloso viaggio iniziatico fuori dai confini protettivi del villaggio è ancora un’epica alla nostra portata. È ancora un’epica capace di scaldarci l’anima di senso, è ancora quella che dovremmo cercare, aldilà della degradazione slang dell’abuso contemporaneo.

E la forzatura epica nel mio periplo c’è stata tutta: il rischio, il pericolo, la fatica, lo scoramento, la disperazione di riuscire. La burrasca che monta, la voce grossa del mare che zittisce il cuore e secca le fauci di paura. Il sole arrembante che stordisce e annebbia i pensieri, il sale che inaridisce la pelle, il corpo che smagrisce ma si adatta a pretese sempre più perentorie. E poi il coraggio, la forza che ci si dà, la gioia conquistata nonostante gli schiaffi di una natura meravigliosa ma anche dura, di una bellezza commovente ma a tratti astiosa, mai scontata. Mai semplicemente a disposizione.

Le ore strisciano lente come placche tettoniche. Il caldo mi impedisce qualsiasi attività. Cerco l’ombra degli enormi ginepri che convogliano attorno a loro la sabbia impalpabile di queste dune sahariane, disegnando pendii ripidissimi dove fatico a sdraiarmi, sempre nell’equilibrio precario del piano inclinato.

L’ombra poi fugge, al contrario delle ore. Il sollievo di una sagoma d’ombra sembra svanire in pochi minuti nel sogno biancastro della luce meridiana. E mi lascia lì senza riparo, a cercare altrove ombra altrettanto fuggevole.

Mi muovo come un profugo da duna a duna, alla caccia dell’ombra. Il vento forte non mi rinfresca, è caldo come uscisse da un mantice di fonderia. Il dormiveglia assolato non ha nulla a che fare col riposo, è delirio febbricitante. Vengo attraversato da ricordi infantili offuscati da questa ipertermia artificiale. Il sogno malato di Raskolnikov si mescola ai ricordi delle febbri di bambino, che riempivano la testa di visioni enigmatiche e suoni d’organo strozzato.

Ogni tanto una valvola interna salta. Il pressostato dà l’allarme e allora mi sollevo come colto da raptus e mi lancio tra le dune. Mezzo incespicando mezzo rotolando verso l’acqua, butto il corpo come si getta un’àncora fuoribordo. Nell’elemento liquido ritorno alla lucidità, quasi fosse una variabile strettamente dipendente dalla temperatura corporea. Oltre una certa soglia centigrada, si offusca come un vetro appannato. Al di sotto si ripulisce e ritorna la visibilità accecante.

Circumnavigare la Sardegna è stata un’immersione nella sua storia. In quella antica e in quella moderna. Nella storia in divenire, che si fa sotto i nostri occhi, ma per questo tanto più difficile da cogliere nei suoi aspetti drasticamente e drammaticamente caustici. Questo ho provato a narrare, sentendomi antico nel mio navigare lento, in dialogo asincrono con chi quella costa l’ha vissuta secoli e millenni prima - ma per forza di cose immerso nella modernità degli insediamenti industriali e dell’anarcume turistico.

Le galee a fine giornata venivano tirate in secca, proprio come il mio Aerius. Quel gesto di trascinare la barca sulla sabbia al crepuscolo, aspettando l’aiuto della spinta dell’onda che si frange sulla battigia, l’hanno compiuto innumerevoli uomini prima di me. Su queste stesse coste, su queste spiagge e su mille altre del tutto simili, in tutti i mari del mondo. Ne sento la presenza palpabile. Ne percepisco la conoscenza, la perizia tecnica, la fatica. Il sale del loro sudore che si mescola a quello dell’acqua. Con le mie azioni ripercorro le loro storie sovrapponendole alla mia minuscola.

Sono solo, stasera, ma non sento affatto di esserlo. Quelle storie sono tutte con me, e io con loro nel solco della stessa proteiforme avventura.

Un viaggiatore nell’era del turismo si sentirà sempre fuori posto.

Travisato, frainteso, spesso ignorato, talvolta preso in giro, gran parte delle volte come invisibile. E tuttavia sarà un osservatore attento, preciso, tanto più chirurgico quanto poco coinvolto nelle dinamiche della rappresentazione turistica.

Navigando lungo i tanti luoghi della mia infanzia e giovinezza, attraversando al contempo i ricordi che li hanno abitati, che ho visto trasformati dagli ultimi cinquant’anni, ho resistito con ostinazione alla tentazione fatalistica di guardare a questo sviluppo come inevitabile, alla trasformazione degli scenari naturali come il migliore degli sviluppi possibili. L’unico che - come sardi e cittadini del mondo - ci sia dato accettare e farci piacere. L’unico capace di traghettarci verso una modernità malintesa.

Questo è stato lo sguardo che durante il mio Periplo ho provato a esercitare e tradurre nella sua narrazione. Uno sguardo che mi vedeva emotivamente coinvolto, perché ero sì viaggiatore, ma viaggiatore nella mia terra. Con il rischio che l’emotività mi prendesse la mano, ma anche con la forza di penetrazione che questo coinvolgimento emozionale ha saputo iniettarmi.

Ed ecco altre rocce rosse, quelle di Capo Bellavista, che annunciano Arbatax e il suo golfo.

Qui i graniti vanno dal grigio chiaro all’arancio, dal ruggine al rosa tenue. Questo promontorio è un variopinto tripudio di sfumature cromatiche, innervate dal verde della macchia e delle pale dei fichi d’india. Il paesaggio aspro e caldo allo stesso tempo, fa risaltare ancora di più la finzione invadente delle forme di un resort che monopolizza tutta la parte meridionale del promontorio.

Bungalow circolari simil-tropicali si alternano a palmizi alti e fuori luogo; l’azzurro malato delle piscine scimmiotta malamente quello inarrivabile del mare; le spiaggette incastonate fra i maestosi graniti sono vomitate dai colori maleducati di lettini e ombrelloni. E su tutto, in alto, il verde insopportabile dei pratini all’inglese - uno sberleffo alla cronica siccità isolana - a circondare altre piscine, come in un atollo da plastico di studio tecnico.

La narrazione interiore di un viaggio inizia molto prima di partire. Si compone cellula dopo cellula, come un embrione in accrescimento, mentre ne culliamo l'idea e ne curiamo i preparativi. Scorre poi parallela al movimento, a quella traslazione spazio-temporale che associamo al viaggio: lo accompagna in ogni istante del suo farsi, come un foglio lucido poggiato su una mappa e denso di nomi, frecce, colori e segni indispensabili per interpretarla.

Prosegue poi oltre il ritorno, quando ci volgiamo a retro a rimirar lo passo e proviamo a conchiudere e rendere comunicabile la nostra esperienza. A farle fare quel salto ontologico che da concatenazione di fatti la rende narrazione per altri.

Questa mia seconda navigazione è ancora nel pieno dei marosi, e non posso assicurare che ne uscirò intero e in qualche modo vittorioso - anche se vittoria non è la parola che più mi risuona: richiama una competizione che non c'è, una battaglia a cui come metafora voglio sfuggire. Preferisco la parola più neutra e pacifica sopravvissuto: fotografa la condizione che preferisco.

Quella di chi è pronto a ripartire.